E’ stato violentato, dato per finito più volte, eppure questo sport continua a resistere e ad appassionare. Passano i campioni e i gregari ma non il suo fascino. Perché è la cosa che si avvicina più al casino delle nostre vite.

Ci si ritrova lì, sempre, anno dopo anno, che ci sia il sole, la pioggia, il vento, che si sudi a star fermo o si battano i denti, basta una domanda, buttata lì nel mezzo di una conversazione: “Oh, lo andiamo a vedere quest’anno?”. Sia Giro o Tour ha poca importanza, è altro che conta, le biciclette, il ciclismo. Si parte e ci si ritrova dove la strada sale, ai lati di un asfalto di montagna, a piedi o sui pedali, dettagli, magari il giorno prima, a dormire in tenda o in camper. Oppure sotto casa, si scendono le scale, si arriva nel primo punto buono. E’ la corsa l’importante, stare lì a vedere passare i corridori, tra gente che come te si è presa una pausa da tutto, perché passano le corse, questo basta.

Il ciclismo passa, così come i corridori, cambiano, non muta la gente che aspetta il passaggio, anche se sono diverse le facce, le lingue, i colori. C’è sempre stata, c’è, continuerà a esserci. Perché quello è il luogo giusto al momento giusto, il posto dove si deve stare. Non serve conoscersi, ci si conosce già, si sa quello va detto, i discorsi che vanno fatti, si sa soprattutto che è lì che non si sentirà mai il fastidio della domanda a cui è inutile rispondere. Perché va sempre a finire così, qualcuno ti chiede che fai; tu rispondi c’è il Giro, sto a casa, magari ci vediamo dopo; termini la frase, già vedi l’espressione del tuo interlocutore e sai che è arrivato il momento: “Il ciclismo? Che palle. Ma come fa a non annoiarti?”. L’unica risposta che ha senso è anche l’unica che lui non potrà mai capire, “è tutto un complesso di cose / che fa sì che io mi fermi qui”, a dirla con Paolo Conte, “mi piace restar qui sullo stradone / impolverato, se tu vuoi andare vai”. E li si sta, perché quello è ciò che piace, nonostante tutto.

La verità è che non c’è spiegazione, il ciclismo è passione che nasce un giorno, a volte ereditaria, a volte casuale, sempre folgorante. Te ne puoi innamorare da piccolo, magari stando sulle ginocchia di tuo nonno o tuo padre, davanti alla televisione o in montagna a guardare le biciclette, i corridori, quegli uomini magri come chiodi, segaligni, dai visi scavati, abbronzati a chiazze. Puoi farlo più in là con gli anni, per sbaglio, perché è per sbaglio che succede.

E’ la prosecuzione delle letture dei bambini, delle storie che vengono loro raccontate, fiabe e romanzi d’avventura, dei cartoni che guardano. Sono ricordi che riaffiorano, i corridori sulla strada sembra di averli già visti e sentiti, sono i Capitan Nemo, i Long John Silver, sono Cavalieri dello Zodiaco e One Piece. Fanno le stesse cose, corrono, viaggiano, esplorano, ognuno con la propria abilità speciale, ognuno con il proprio punto debole. Sono in mezzo alla pianura, sotto il solleone a schiumare afa, il giorno dopo sbucano da un bosco alpino, raggiungono cime innevate, si buttano a capofitto nel nulla di una discesa in posizioni inimmaginabili. Sono in continuo movimento, come i personaggi dei racconti di una volta, di quando si era bimbi.

Ci sono gli eroi e gli antagonisti, il bello, il brutto, il cattivo, sembra un film western. Sono in tanti alla partenza, rimangono in pochi alla conclusione dello spettacolo. Molte volte sono testa a testa, lotte all’ultimo scatto, Achille contro Ettore, altre sono domini assoluti, senza possibilità di replica, uomini soli al comando, fughe infinite, vittorie solitarie. E’ l’esaltazione dell’atleta, dell’uomo speciale, dell’eroe solitario, che tutto può, ma che deve combattere contro la cattiva sorte, contro qualche specie di maledizione: sono le storie di Coppi e di Pantani, di Roger Rivière e Bottecchia, artisti del pedale che nella loro carriera più che gli avversari hanno trovato la sfortuna a fermarli.

Questo è il ciclismo, una letteratura tutta nuova, che assomiglia all’epica cavalleresca, anzi che è epica, ma senza cavalli, biciclettesca, dove gli eroi non sono nobili, decaduti o meno, ma cenci d’uomo con nasi lunghi e gambe potenti con pezzi d’acciaio da cavalcare. Nonostante tutto.

Ma c’è dell’altro, un sentimento che nasce e va avanti con te, con la tua vita quotidiana, perché a questi personaggi ti affezioni, esulti per le loro le vittorie, gioisci, condividi le sconfitte. E’ qualcosa di più profondo al legame che si può stringere con una squadra di calcio o di basket, perché non ci sono molti occhi nei quali guardare, ma solo due, si instaura una sorta di tu per tu, di rapporto fideistico e personale, difficile da trovare in un altro sport dove è la maglia a contare, non il singolo individuo. E’ Bartali, non la Legnano, Coppi non la Bianchi, Moser non la Gis, Nibali non la Trek.

La scelta non è però mai esclusiva, non aut aut, ma inclusione. Il beniamino viene scelto per il modo di correre, perché ha in se le caratteristiche umane e sportive che si prediligono, gli altri però non sono nemici, ma mondi alternativi, altri modi di vivere, ugualmente dignitosi. Quando si va sulle strade per una grande corsa, gli applausi sono per tutti, perché è fatica condivisa, cane e infame, e a ognuno viene riconosciuta la propria dignità di faticatore, di atleta. Basta salire su di una bicicletta per capirlo, basta affrontare una qualsiasi salita. La strada sale, il fiato si accorcia, il cuore pompa come un dannato, i muscoli iniziano a scottare sotto pelle. Quando si pedala si diventa parte di quello sport, la collina dietro casa diventa il Pordoi, quella successiva lo Stelvio o il Mortirolo, si entra nel racconto, si gioca di fantasia; se ci si alza sui pedali si è Pantani, se si sale seduti Indurain o Anquetil, se si trova qualcuno per strada, ombra lontana all’inizio, lo si raggiunge e lo si supera, sicuramente Merckx. Ogni tanto quando la pendenza è troppa oppure ci si trova a decine di chilometri da casa con le energie a zero ci si chiede: “Ma chi me l’ha fatto fare?”, subentra un po’ di rassegnazione, ci si maledice. Ma è nuvola passeggera, a salita finita o a casa raggiunta, ci si guarda indietro, si sorride e si sa che lo si rifarà. Perché è sfida con se stessi, volontà di superarsi. Nonostante tutto.

L’amore per un atleta rimane, per sempre, anche se arriveranno altri corridori che entusiasmeranno, per i quali si arriverà a tifare, a ristabilire un nuovo rapporto esclusivo. Non c’è limite a questo, ogni dieci anni accade, è la prassi. Il ciclismo è sport di nostalgia, ti fa ricordare storie passate, antiche e si diventa antichi, sia perché ci si muove su un mezzo concepito a fine del Settecento, realizzato nell’Ottocento, diventato moderno a inizio del Novecento e da lì in avanti mai cambiato se non nei dettagli, sia perché si ricordano le imprese di una volta, le si confronta con quelle recenti, e pur parlando dei nuovi campioni, ritornano nel discorso i Campionissimi e le Locomotive umane, i Diavoli Rossi e gli Scoiattoli, gli Aironi e Ginettacci, tutti quegli atleti per i quali si è provato un sentimento di vicinanza.

Perché il ciclismo è uno sport di vicinanza, fa sembrare vicino qualsiasi luogo, perché passa attraverso i luoghi, non si chiude in uno rettangolo precluso ai più, inarrivabile, gli atleti corrono dove si è passati ieri e si ripasserà domani magari ancora in mezzo ai palloncini e agli striscioni colorati, con le scritte in gesso e vernice per terra, wilgiro, forzanibali, forzapantani, e ci si sente un po’ come loro e anche l’andare al lavoro in giacca e cravatta, borsa a tracolla e scarpe in vernice sembra più dignitoso, quasi eroico, su quelle strade. Porta gli spettatori all’interno dell’Italia e della Francia, del Belgio e della Spagna, si conoscono città e paesini, abitudini e tradizioni, si viene a conoscenza di racconti, una narrazione continua.

Una lunga storia che incontrerà anche pagine buie. Le novità quando non sono corse e vittorie, sono cronaca e sicuramente nera. Nera come l’umore che viene quando si scopre che il proprio atleta preferito, quello per cui si ha fatto il tifo, ci si è messi sotto il sole dell’una per fare una scritta sull’asfalto è stato beccato all’antidoping. Succede, è successo, succederà. Sembra qualcosa di ciclico, quasi una tassa che si deve pagare, di cui non sai ancora l’esistenza, ma che prima o poi ti può capitare tra capo e collo. Allora si leggono le cronache, si guardano i tiggì, ci si informa e ci si ritrova a parlare di farmaci sconosciuti sino allora, di pratiche delle quali nemmeno si immaginava l’esistenza. Ci si incazza, di brutto, si dice basta, è un bluff, ci si vorrebbe dimenticare di questo sport. Tutto però dura ore, giorni, settimane, ma la bicicletta la ritrova ancora sotto di noi, una salita davanti e si capisce che sono uomini anche loro, che quando la strada sale è dura per tutti, che tu sia Coppi o un tizio qualsiasi, che nella vita di ogni giorno cerchiamo un compromesso, molte volte una scorciatoia per arrivare dove abbiamo sempre voluto arrivare; abbiamo accettato lo sconto per non far fare la ricevuta a chi ha fatto quel lavoretto, che si chiede all’amico commercialista di non conteggiare proprio tutto, i film che guardiamo sono quasi sempre scaricati illegalmente e la connessione la prendiamo al vicino che il wi-fi ce l’ha libero. Si pedala e a ogni pedalata ci si rende conto che vabbè può capitare, alla fine c’ha provato ed è stato preso, che se non del tutto giusto non è nemmeno tutto sbagliato, perché è professionismo, perché girano soldi e sponsor e in qualche modo qualche vittoria la si deve pur portare a casa, che è il prezzo che si deve pagare per godere dello sport ricco e televisivo, perché altrimenti sarebbe dilettantismo e non si potrebbe avere sul divano via satellite.

Non li si difende i corridori, non li si abbuona tutto, questo no, la delusione c’è ed è inutile negarla, ma la passione resta. Il proprio favorito cambierà nome e volto, età e caratteristiche, ma quello che non cambia, quello che resta è l’amore per questo sport, che ha le sue magagne e i suoi punti oscuri, le sue debolezze e le sue assurdità, ma che rappresenta meglio di ogni altro il casino della vita di tutti, le incongruenze e le contraddizioni. Rappresenta noi, il nostro essere dottor Jekyll e mister Hyde, tutto quello che sappiamo che non si deve fare, ma che qualche volta facciamo lo stesso. E così l’anno successivo si ritorna sulle strade di montagna, con la solita gente, una nuova maglia colorata e un nuovo idolo, perché è così che va, nonostante tutto.

by Giovanni Battistuzzi

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