Lo sport, e il ciclismo in questo caso specifico, ha chiesto sovente un tributo altissimo di sangue per elevare al rango di eroi leggendari atleti destinati comunque, a carriera conclusa, a meritarsi le stimmate di campione. Senza dover scomodare Coppi e Pantani, piuttosto che Casartelli e ultimo in ordine di tempo Michele Scarponi, viene a mente la tragica fatalità che ha privato il pedale del talento sconfinato di Jean-Pierre Monseré, a cui, come vedremo, è da aggiungere una coda tanto fatale e drammatica da consacrarlo quale campione più disgraziato della storia del ciclismo.
Monseré nasce a Roeselare, nelle Fiandre Occidentali, l’8 settembre 1948, epoca storica decisamente prolifica di prodigi in bicicletta. E non solo il “cannibale” Eddy Merckx. E che il ragazzo abbia talento cristallino è palese fin dal nascere della sua attività su due ruote, veloce allo sprint, abile nei colpi di mano, scintillante su muri e rampe, tosto quanto basta anche in salite non troppo lunghe e pendenti. Insomma, il prototipo del corridore fiammingo in grado di primeggiare su ogni terreno.
E che Monseré sia forte, addirittura fortissimo, gli addetti ai lavori se ne rendono conto fin dai primi passi tra i dilettanti, tra i quali il giovanotto colleziona un successo dopo l’altro, terminando altresì secondo ai Mondiali di Brno del 1969, ad agosto, quando solo il danese Leif Mortensen riesce a batterlo riportando in patria un titolo che mancava dal 1931, quando ad imporsi fu Henry Hansen.
Appena 21enne Monseré, che ha preso parte alla prova su strada alle Olimpiadi di Città del Messico terminando sesto nella gara vinta da Pierfranco Vianelli davanti all’immancabile Mortensen, si guadagna l’interessamento e la stima di Alberic Schotte, ex-campione del mondo nel 1948 e nel 1950, che dirige la Flandria che ha in Walter Godefroot, Eric Leman e Roger De Vlaeminck campioni già affermati. Jean-Pierre passa professionista già con grandi aspettative e non tarda ad incamerare il primo successo di una carriera tra i “grandi” che si annuncia luminosa. L’11 ottobre 1969, sotto un bel sole autunnale, si corre il Giro di Lombardia, e dopo un tentativo iniziale del portoghese Agostinho, sono Gianni Motta e Michele Dancelli ad incendiare la corsa con un attacco a lunga gittata. I due temerari, inzialmente accompagnati dal belga Huysmans che è il primo a cedere, resistono fino al colle di San Fermo della Battaglia, quando il loro tentativo si esaurisce e nove contrattaccanti si presentano allo Stadio Sinigaglia a Como a giocarsi la vittoria. Franco Bitossi entra per primo in pista ma è infine l’olandese Gerben Karstens a tagliare il traguardo a braccia alzate davanti a Monseré. Trovato positivo qualche giorno dopo, al neerlandese viene tolta la vittoria, che va invece a impreziosire il giovane palmares di Monseré.
Il dado è tratto. Monseré entra nel ciclismo che conta dalla porta principale, subito legittimando le aspettative riposte sulle sue enormi potenzialità e l’anno successivo, 1970, il fiammingo si conferma ad altissimi livelli. Se alla Milano-Sanremo è solo 22esimo, conquista invece un promettente sesto posto al Giro delle Fiandre vinto dal compagno di casacca Leman, per poi piazzarsi in decima posizione alla Parigi-Roubaix, in cui gli stessi De Vlaeminck e Leman chiudono alle spalle di Merckx, figurando in ottava posizione sia alla Gand-Wevelgem che alla Freccia Vallone. Vince diciannove corse, tra cui due tappe alla Vuelta Andalusia e una al Giro del Lussemburgo, è terzo ai campionati nazionali su strada alle spalle di Merckx e Van Springel, e il 16 agosto è convocato per i Mondiali che nel 1970 trovano ospitalità al Mallory Park di Leicester, in Inghilterra.
In Gran Bretagna Monseré è ovviamente al servizio di sua maestà Eddy Merckx, iridato nel 1967 ma poi battuto, senza attenuanti, dalla cavalcata trionfale di Vittorio Adorni l’anno dopo a Imola e dall’inatteso olandese Ottenbros a casa sua, a Zolder, nel 1969. E il “cannibale“, che in stagione ha fatto suoi Parigi-Roubaix, Giro e Tour, sembra non voler lasciare nulla di intentato per tornare a vestire la maglia arcobaleno. Manda Monseré a tenere a bada il quartetto di azzurri che anima la corsa fin dal 100esimo chilometro, ovvero Gimondi, Motta, Dancelli e Santambrogio, ricuce lui stesso lo strappo a meno 50 dal traguardo ma all’atto di risolvere la vicenda a suo favore, Eddy viene a mancare. Nei chilometri finali restano davanti l’attentissimo Monseré, i due francese Vasseur e Rouxel, il beniamino locale Les West, proprio Gimondi e quel Leif Mortensen che tra i dilettanti anticipò Jean-Pierre. Felice ci prova ai 500 metri ma esausto per gli sforzi profusi in una lunga giornata alla garibaldina viene saltato dalla stoccata vincente di Monseré che va a cogliere la vittoria davanti allo stesso Mortensen, secondo a 2″, vendicando con gli interessi la delusione di Brno dell’anno prima. Terzo, e con il volto rigato non solo dalla fatica ma anche dal disappunto, un impagabile e generosissimo Gimondi.
Con ancora 22 anni da compiere, Monseré, Jempi per gli amici, è già sul tetto del mondo, bello, estroso, simpatico e vincente tanto da farne il candidato più autorevole al ruolo di anti-Merckx. E dire che i rivali di classe non mancano di certo. Pure felicemente sposato con Annie, padre del piccolo Giovanni, a Jean-Pierre la vita pare un lusso e lo sport una meravigliosa componente… ma il destino, bastardo come solo lui sa essere, è maledettamente in agguato.
In effetti Monseré comincia la stagione 1971 esattamente come aveva terminato la precedente, ovvero vincendo, ad esempio quella Vuelta Andalusia che se l’anno prima l’aveva visto primattore in due frazioni, stavolta, oltre ai traguardi parziali di Cordoba e Jerez de la Frontera, lo vede trionfare nella classifica generale, con il collega di squadra De Vlaeminck in terza posizione. Il campione del mondo è l’emblema perfetto del corridore universale, in grado di vincere una gara facile ma tatticamente complessa come la Milano-Sanremo, di dominare sui muri e il pave delle Fiandre e della Roubaix, così come sulle Cotes delle Ardenne, per poi presentarsi nei panni di pretendente autorevole anche al Mondiale e in una corsa esigente come il Lombardia. Insomma, per l’anno in corso Monseré può essere l’alternativa a Merckx, ovunque, e il confronto si annuncia memorabile.
Sono gli anni, in verità, in cui i campioni non centellinano le energie dirottandosi solo sui grandi appuntamenti, bensì, soprattutto se belgi, sono impegnati quasi quotidianamente nelle tante kermesse che aiutano a far salvadanaio ed allenare la gamba. Soprattutto se si indossa la maglia con i colori dell’arcobaleno. E Monseré non si sottrae certo al suo nuovo status di campione. Il 15 marzo, pertanto, il fiammingo si presenta al via di un circuito locale, il Gran Premio Retie, utile sgambatura in preparazione del primo grande obiettivo stagionale, la Milano-Sanremo, la corsa dei suoi sogni, programmata per quattro giorni dopo (la vincerà Merckx, quarta della serie). Ed invece, a quell’appuntamento, Monserè non arriverà mai.
Jean-Pierre, che è campione a tutto tondo, tanto da voler onorare fino in fondo la maglia che indossa pur in una competizione di nessuna rilevanza, comanda la corsa e qui, voltandosi indietro nel controllare chi lo insegue, cambia traiettoria spostandosi verso il lato sinistro della strada. In quel mentre, inopportunamente, sulla Nazionale 140 nei pressi di Anversa, tra il villaggio di Sint-Pieters Lille e quello di Gierle, sopraggiunge in senso contrario un’auto, ignara del blocco imposto dagli addetti alla sicurezza: alla guida Josephine Van Rooy-Lammens, che invece di accodarsi alle macchine ferme, esce dalla fila. L’impatto tra Monseré e la vettura è violentissimo, il corridore batte la testa e muore sul colpo, sotto gli occhi dell’amico De Vlaeminck che tenta un inutile soccorso, e con lui si spenge l’illusione di aver trovato il volto nuovo del ciclismo moderno.
Qualche anno dopo la cattiva sorte, assetata di vite umane, nel luglio del 1976 si prenderà anche il piccolo Giovanni di soli 7 anni, che troverà la morte mentre scorrazzava con la piccola bici regalatagli per la sua prima comunione da Freddy Maertens (grande amico di Jean-Pierre) per le strade di Rumbeke. E così, per un tragico scherzo del destino, Monseré padre e figlio si ritrovano in cielo, a pedalare tra gli angeli… perché è quello il posto che spetta a chi è stato strappato troppo presto alla vita.
by Nicola Pucci