Il 28 luglio 2021, sotto il Monte Fuji, su di una normale bicicletta da strada con giusto due microappendici sul manubrio Masomah Alizada ha realizzato ciò che aveva sognato a lungo: partecipare alle Olimpiadi. Ventidue chilometri e cento metri corsi al meglio che poteva, quelli della prova a cronometro di Tokyo 2020. Venticinquesimo e ultimo posto all’arrivo, ma poco ha importanza il tempo e il risultato. Non poteva competere con le altre né per preparazione né per mezzi tecnici. Alle sue spalle non c’era una federazione, addosso non aveva la divisa della sua nazionale, quella afghana, ma quella bianca della squadra olimpica dei rifugiati.

Dall’Afghanistan Masomah Alizada era riuscita a fuggire definitivamente nel 2017. L’aveva accolta la Francia e in Francia era riuscita a fare ciò che più di ogni altra cosa la rendeva felice: pedalare. Con la sua famiglia era scappata in Iran nel 2000. Suo padre si era sempre opposto al potere talebano e quando per lui la situazione era diventata insostenibile aveva cercato il luogo più vicino per dare un futuro alle figlie. Le cose non andarono bene: lo status di rifugiato non gli fu mai concesso e per anni furono costretti a una vita di clandestinità. Fu lì che Masomah però incontrò la bicicletta. Non se ne separò mai più.

Iniziò a correre nella Kabul liberata dai talebani, ma non dai pregiudizi sulle donne in bicicletta. Fu vittima di insulti, minacce, aggressioni per le vie della capitale afghana. Una volta pensò che fosse giunta la sua ora. Non fu così. La polizia la liberò dagli aggressori e lei riprese la bicicletta con più foga di prima.

“In Afghanistan gli uomini pensano che la bici non sia adatta a una donna. I talebani ci avevano addirittura bandito dallo sport. Io però non ho mai rinunciato alla bicicletta, il mio desiderio è quello di incoraggiare le ragazze a pedalare. Il ciclismo femminile diventerà qualcosa di normale in Afghanistan”, disse a France 24 nel 2017, dopo aver ottenuto lo status di rifugiata. La sua storia divenne pubblica l’anno precedente grazie al documentario Les Petites Reines de Kaboul, che mostrava cosa volesse dire pedalare in uno stato dove gran parte delle persone credono nell’immoralità di una donna in bicicletta.

“Quando iniziai a pedalare gli uomini, specialmente quelli che ci vedevano per la prima volta, ci sputavano, ci lanciavano pietre, provavano a investirci con le loro auto”, ha raccontato al Guardian la capitana della squadra femminile afghana.

Piano piano per lei e per le altre donne le cose migliorarono. Ma nemmeno troppo. Le aggressioni calarono, ma non scomparvero. “Quei negozianti che avevano la bottega lungo le vie dove pedalavamo ci lanciavano di tutto: sono stata colpita da patate, mele, mille altre cose. E usavano parole molto offensive contro di noi, imbarazzanti, che quasi ci si vergognava a essere una donna”.

Eppure, nonostante questo, c’era la consapevolezza che potesse essere anche peggio, che il passato potesse ritornare e spazzare via tutte le piccole conquiste ottenute con l’occupazione occidentale. “Prego davvero che il Paese possa diventare un posto sicuro per una donna, che ci sia ancora la possibilità di andare in bicicletta per le strade. Sono però abbastanza sicura che se dovessimo tornare indietro, i gruppi talebani non permetterebbero mai alle donne di studiare e avere un lavoro. Potranno mai lasciarci andare in bicicletta? Sono abbastanza sicura che non ce lo permetteranno mai; ci spareranno e basta”.

Era il 27 luglio quando pronunciò queste parole. Ora il passato è tornato presente. I talebani hanno ripreso Kabul e riconquistato il potere. E le biciclette spariranno di nuovo dall’Afghanistan.

Nel 2000 erano vietate a tutte le donne. L’hanno scorso la truppa iscritta alla Federazione contava 220 atlete, diverse migliaia erano quelle che utilizzavano questo mezzo nelle città. E continuavano a crescere.

“Il paese è perduto. Io manco da lì da giugno. Avrei dovuto tornare a settembre, ma non ci sarà un ritorno”, dice a Girodiruota Hans Mossen, imprenditore e attivista svizzero che da tre anni andava e veniva da Herat dove aveva iniziato un progetto per aiutare le donne afghane a muoversi in bicicletta. “I talebani dicono che non ci saranno vendette, ma nessuno ci crede, è impossibile solo a pensare una cosa del genere. Sono già iniziate. Tutto quanto fatto sino a ora è andato perso. La libertà del pedalare sarà spazzata via da uomini ignobili”.

“Eravamo riusciti a mettere in sella oltre cinquecento donne in questi anni. La bici per loro era libertà, una conquista incredibile”, spiega Mossen. “Era un vessillo e una speranza, quella di poter davvero andare incontro a un mondo migliore, più giusto. Spero solo che le mie ragazze siano riuscite a fuggire, che la loro voglia di essere libere non venga cancellata per sempre”.

by Giovanni Battistuzzi

mmagine tratta dal documentario Afghan Cycles del 2014

from http://urly.it/3f79a

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *