La classica del pavé è a rischio rinvio. Buone ragioni per non farlo.

Su una cosa gli amici Georges Simenon e André Gide erano pienamente d’accordo: Roubaix e gran parte delle zone del Dipartimento del Nord sono in Francia solo per necessità geometrica. “È evidente che tutte quelle zone sono una protuberanza fiamminga all’interno del perimetro dell’Esagono. Credo servisse un po’ di terra solo per giustificare il nome, pareva brutto sennò”. Simenon era belga, ma vallone, Gide era francese, ma parigino. Tutti e due avevano un rapporto strano con quella zona di Francia. Ne apprezzavano la ferocia dei paesaggi e quella mistura di dialetto francese e fiammingo che “rende così affascinante e incomprensibile il parlato” e quel “viscerale attaccamento alle loro tradizioni. Dev’essere senz’altro eredità dell’arbitraria ostinazione fiamminga”, scrisse Simenon.

Sono passati quasi ottant’anni da queste parole. E si sentono tutti. Il dialetto è sempre meno diffuso e quell’attaccamento alle loro tradizioni è sempre meno viscerale. Tanto che il prefetto dell’Hauts-de-France, Michel Lalande, che del nord non è ma della Cher, regione centrale della Francia, ha dichiarato a Radio France Bleu Nord: “Mi devono spiegare come una corsa ciclistica possa essere coerente con le chiusure e tutte le misure messe in atto per garantire la sicurezza e il distanziamento. Me lo devono spiegare…”. La corsa in questione non è una corsa tra le tante. Anzi non è una corsa, ma la corsa: la Parigi-Roubaix, una tra le più antiche e affascinanti gare in bicicletta, l’ultima grande follia del ciclismo moderno. È un vagare tra pietre e strade dimenticate da Dio e dallo stato, la rivalsa a pedali delle zone periferiche della Francia sulla centralità parigina, una corsa che da sola vale una carriera, “anche se non la vinci”, disse Roger De Vlaeminck (è però più semplice dire ciò dopo averla conquistata quattro volte). La Parigi-Roubaix rischia di essere spostata a data da destinarsi, probabilmente a ottobre.

La pandemia è una brutta bestia, che non può e non deve essere presa sottogamba. Far aumentare i contagi è un attimo, soprattutto in un periodo nel quale, in quasi tutta Europa, si fa ancora fatica a vaccinare velocemente un numero elevato di persone.

La pandemia di Covid-19 è però un problema mondiale e sta colpendo duro tutta l’Europa. Non ci sono oasi felici, nemmeno al di là del confine francese. Il tasso di positività del dipartimento del Nord è di 9.6 (dati del 23 marzo), quello fiammingo è al 8.4. Nelle Fiandre si è corso quando questo era superiore al 10, e si sta correndo ancora. Lo sport si è adeguato, ha creato delle condizioni di quasi totale sicurezza sia per gli atleti che per le altre persone. In Belgio e ovunque. Certo tutto ha un costo: le strade sono deserte di pubblico, le feste nei paesi vietate. E questo vuol dire privare i fiamminghi non solo del contorno, che a quelle latitudini ha lo stesso valore delle corse in bicicletta, ma anche delle risorse grazie alle quali parte del ciclismo continua ad andare avanti. Si è rinunciato e si rinuncerà a tanto pur di permettere alle corse di continuare, perché il ciclismo non può fermarsi, deve andare avanti. Questo sport lassù è stato, e in parte è ancora, una fede, una speranza per il futuro. Il Giro delle Fiandre si è corso anche durante la Seconda Guerra mondiale. Il feldmaresciallo Gerd von Rundstedt aveva provato a vietarlo nel 1940, tornò sui suoi passi pochi giorni dopo: c’era un fortissimo rischio di insurrezione.

Gli organizzatori della Parigi-Roubaix stanno cercando di evitare il rinvio. “Una decisione non c’è, ma potete immaginare la risposta”, ha commentato Lalande sottolineando che la regione è in lockdown. La prossima settimana si deciderà (anche se il Parisien dà per certo lo slittamento). Il ciclismo attenderà. Quello che è certo è che la Roubaix non può e non deve essere considerata un impiccio. Meriterebbe un’altra considerazione che la Francia non le sta concedendo. Perché non annettere il Nord alle Fiandre almeno per aprile?

by Giovanni Battistuzzi

Paris-Roubaix

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