Era il 10 maggio del 1931 quando Learco Guerra vestì la prima maglia rosa del Giro d’Italia. Lo fece al termine della prima tappa, la Milano-Mantova. Il racconto di quel giorno.
Un muro di polvere che tutto avvolgeva e tutto faceva sembrare uguale. Quasi non ci si vedeva. Solo i colori delle maglie si riuscivano a intravedere in quel turbinio di bianco e di grigio, solo quelli e il nero dei tubolari che precedevano l’andare veloce e cadenzato delle macchine a pedali.
Un ronzio, ossessivo e costante, interrotto soltanto dalle grida euforiche e contente di chi a bordo strada cercava in quel vortice le sembianze dei propri beniamini. Quei nomi che si sentivano alla radio e ai quali i rotocalchi ogni tanto associavano un volto e un’identità che non era fatta soltanto di chilometri, vittorie e sconfitte. Erano cavalieri in bicicletta, lanciati in cerca della ribalta momentanea, ma indelebile, di una tappa, di una corsa, di un modo per sfuggire all’anonimato, seppur amorevole e indispensabile, del gregariato. I mulini a vento erano strade, salite, discese, avversari di gambe e muscoli scattanti, sudore ed espressioni di una fatica massacrante, tutti esorcizzati in smorfie. Parevano sorrisi, lontani e sbiaditi, quasi inconsapevoli. I loro volti sembravano maschere: di fango con il brutto tempo, di polvere che pareva cipria quando invece il sole brillava sopra le loro teste. Maschere in una primavera che cacciava l’inverno.
Chilometri e fatica di lavoro e inseguimenti. Poi le vacanze sarebbero arrivate. E se solo di queste parlavano in gruppo. E poco importava se sarebbe stato giugno e la gente normale lavorava, le spiagge deserte, il caldo tepore di agosto un ipotesi ancora in divenire.
Il selciato sotto le guglie del Duomo era il terreno privilegiato di partenza. Amici e nemici erano fianco a fianco. Amici e nemici solo sulla carta, perché a faticar erano tutti e nelle difficoltà si mostravano un po’ meno crudeli, un po’ meno cannibali: l’onore delle armi e il dono di un sorso d’acqua fresca non lo si negava a nessuno, nemmeno al proprio avversario di una vita.
Chilometri e chilometri. Ma poi per cosa? Per pedalare e basta, respirar polvere e scottarsi il coppino al sole? Solo questo, punto. In paese sapevano tutti come sarebbe andata a finire. Avrebbe vinto lui: quel varesotto, quel bellimbusto lì, dai modi garbati e riservati.
L’avevano lasciato a casa l’anno prima, quelli del Giro. Gli avevano versato in anticipo il premio che spettava al vincitore. “Manifesta superiorità”, avevano detto e gli altri non ci volevano gareggiare. Ma si può partire sconfitti e tornare vincitori, o anche rimanere sconfitti e basta, chi lo sa.
Chilometri e chilometri da pedalare. C’era il mantuan che di fatica ne aveva già fatta tanta e di polvere da manovale ne aveva inspirata e digerita. Adesso sarebbe stato il caso a guidarlo, il caso e le gambe. Due curve, poi un rettilineo che non sembrava finire, lungo come un addio alla propria amata, come il saluto alle proprie illusioni. I chilometri aumentavano e pesavano sulle gambe. Era solo l’inizio, lo sapevano tutti i ciclisti.
In quei venti giorni che avevano davanti di strada i ciclisti ne avrebbero dovuta fare tanta. “C’è tempo”, o così almeno si dicevano, sbirciando nello sguardo degli altri i primi segnali di una débâcle che ognuno sperava di vedere negli occhi altrui e mai nei propri.
Il traguardo per il mantuan si avvicinava ed era bello rivedere i luoghi della sua infanzia. La sua mente iniziò a vagare tra i campi che conosceva quasi a memoria. Erano gli scenari di quando si muoveva per andare al lavoro, quando la bicicletta era un mezzo per spostarsi, per avvicinare punti lontani, per farlo più in fretta di quanto i suoi piedi gli avrebbero permesso. Erano i campi in passato spettatori di interminabili partite a pallone con gli amici di allora, di corse su fasce presunte, di tiri e gol in grandi stadi ipotetici e sognati. Era il calcio il suo sogno. La fama però non arrivò. Le due ruote lo iniziarono a trasportare al lavoro per anni. Anni di sveglie nelle ore in cui ancora non c’era il sole, di ritorni in cui il sole invece era ormai calato.
Anni che furono palestra, di vita e di bici. Lunghi, duri, di lavoro che spezzava la schiena. Poi la fatidica domanda. “Perché non provi a fare il corridore? In bici vai forte”. Di ciclismo si mangiava poco, a fare il gregario si gioiva per gli altri, si faticava tanto, ma si guadagnava niente. Diventar campione? Magari! Ma a ventisei anni campioni non si diventa così da un giorno all’altro. Meglio continuare a fare il muratore, una professione più sicura e duratura. Quella domanda però continuava a girare in testa, come un tarlo in un vecchio tavolo che indeboliva il legno delle sue certezze.
“Chi lü l’è el Cavanna, l’à capì che Girardengo l’era Girardengo”. Gli amici del bar glielo avevano detto. Fare il gregario al Campionissimo, un onore non da tutti.
Iniziò a pedalare per lui. Con la stazza che aveva non fargli prendere vento era facile e poco importava se il Campionissimo era ormai un vecchietto e se quel varesotto là non lasciava una corsa a nessuno. Al vinseva sempar lü. Quasi sempre. L’anno prima l’aveva battuto alla Predappio-Roma e alla Caivano. Si era preso la Tricolore, e che soddisfazione! La portava fiero, orgoglioso, non che quella maglia gli rendesse la strada più agevole, ma era tutta un’altra cosa: la gente lo poteva vedere facilmente, lui era il campione d’Italia, non più uno qualsiasi.
Si girò verso destra, verso quella macchia verde che si distingueva nella nuvola di polvere. I ramarri della Legnano erano compatti, nessuno mancava all’appello. In mezzo un puntino bianco, la maglia iridata, la più bella e prestigiosa. Un giorno sarebbe stata sua. Ne era sicuro. Il traguardo si avvicinava. Disse ai suoi uomini di avanzare, di portarsi compatti nelle prime posizioni. Il varesotto e i suoi uomini erano già saliti e guidavano il gruppo.
Si tolse i grandi occhiali da motociclista e li lustrò per bene con la banda rossa della sua maglia. La gente salutava i corridori, inneggiava i loro eroi. Il traguardo si avvicinava e la campagna lasciava timidamente il posto a borghi, a case, a ville signorili. Il bordo della strada si faceva più rumoroso e quella gente gridava anche il suo nome, come mai era successo se non nelle gare del suo paese. Il traguardo si avvicinava e le ruote iniziavano a girare più veloci, il gruppo si allungava, qualcuno salutava e avrebbe riabbracciato gli altri solo dopo il traguardo. I ramarri erano davanti a tirare il collo alle loro macchine a pedali coi muscoli tesi e imbronciati in un turbinio di pedalate che facevano aumentare la polvere e che facevano stringere i denti, impazzire il cuore, esplodere i polmoni.
Il traguardo si avvicinava e con esso anche il momento di quella maglia che avevano presentato alla partenza, rosa come le pagine della Gazzetta, rosa come non avrebbe voluto Mussolini. Il simbolo del migliore, proprio come quella gialla lassù in Francia. L’aveva indossata sette giorni l’anno prima, quasi il tempo di crederci o di sentirne la mancanza. L’aveva presa su al Nord e l’aveva tenuta sino ad arrivare al Sud. Poi quelle salite, calde e interminabili, Pirenei li chiamavano, “maledetti Pirenei”, diceva invece lui. Sbuffò al ricordo, le gambe gli iniziarono a fare male solo a ripensare a quelle ore che aveva odiato con tutto il cuore nel salire verso quelle vette crudeli.
La velocità aumentava e i quei pensieri furono spazzati via dal ronzio ossessivo dei tubolari sul ghiaino che diventava asfalto. C’era la sua città alle porte, la città che lo aveva accolto, abbracciato, figlio della provincia, scappato dalla provincia.
I celesti della Bianchi avanzarono, erano un turbine di gambe che spingevano sulle pedivelle. Fu Michele Mara a partire per primo, quello scricciolo d’uomo con la faccia da folletto, rughe profonde, occhi cerchiati di nero, vispi e determinati, i capelli all’insù quasi a cercare di toccare il cielo. Si rimise i suoi occhialoni da motociclista. Il varesotto iniziò a tirare, accelerò, sembrava volare su quella bicicletta, forza elegante. Non era più tempo di aspettare, non era più tempo di attendere. Uno scarto a destra, la faccia fissava l’asfalto, spingeva in piedi sui pedali per tentare di andare il più forte possibile.
I due però erano ancora avanti e la linea del traguardo si avvicinava inesorabile. Mara accelerò ancora.
Fabio, suo amico e compagno, lo vide da lontano, gli pareva un fulmine, un treno che si lanciava e disintegrava quello che aveva davanti. Vide Michele Mara girarsi. I suoi occhi furbi diventare opachi: non ce l’avrebbe fatta. Il varesotto con la maglia iridata abbassava il capo, un diavolo sconfitto. Ma lui non smetteva di lasciar sui pedali rabbia e potenza. Alzò gli occhi solo al cospetto di sua maestà il traguardo. Primo, ce l’aveva fatta. Il nostro uomo speciale era Learco e in quel momento sorrise nel vedere i suoi amici esultare. Li riconobbe tutti, con uno sguardo li abbracciò tutti. Era il suo momento, ma anche il loro. Lo presero e lo portarono sul podio. Gli diedero la maglia rosa, un po’ effeminata forse, ma era pur sempre il simbolo del più forte. E il più forte era stato lui, quel giorno.
Learco Guerra da San Nicolò Po, Learco Guerra, la Locomotiva umana.
by Giovanni Battistuzzi
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