Dividendo la lunghezza della circonferenza della ruota di Mathieu van der Poel per il suo diametro si ottiene, come ci hanno insegnato a scuola, un numero assai strano: 3.14.
A voler essere precisi, a scuola ci hanno insegnato che questa regola vale per tutte le ruote del mondo (e non ci hanno parlato di Van der Poel, cosa che verosimilmente accadrà in futuro), ma per semplicità prendiamo come riferimento una ruota sola, e assumiamo che questa ruota sia l’anteriore di Van der Poel nel momento in cui, a 51 chilometri dall’arrivo della quinta tappa della Tirreno-Adriatico 2021, in un tratto di leggero falsopiano, ha cominciato a girare più veloce delle altre, mentre il motore che la metteva in moto – sempre quel Van der Poel – aveva tra i denti una barretta energetica che non pareva essere interessato a ingerire.
Era forse una messinscena? Un trucchetto d’altri tempi, di “quando si correva per rabbia o per amore” e ogni espediente, dai bisogni fisiologici in giù, era buono per sorprendere i propri avversari?
Era, quella barretta tra i denti, una piccola metafora del nuovo spirito antico che sembra pervadere il ciclismo in questi mesi, simbolo della rielezione dell’istinto a nume tutelare dei corridori, del ritrovato desiderio di darsi battaglia sempre e comunque, della brama incontenibile che in una linea immaginaria sembra collegare in questo marzo il centro dell’Italia al sud della Francia, la Tirreno-Adriatico di Van der Poel che fa un’altra cosa matta e di Pogačar che quasi lo riprende facendo una cosa ancora più matta con la Parigi-Nizza di Roglič che un giorno rivendica il sacrosanto diritto di provare a vincere ogni volta che può e il giorno dopo è vittima dell’altrettanto sacrosanto diritto dei suoi avversari di metterlo in difficoltà non appena il machiavellico dio del ciclismo – il suo conto con Roglič sempre aperto – gliene offre l’occasione?
L’unica cosa certa è che la ruota di Van der Poel continuava a turbinare e il rapporto tra la sua circonferenza e il suo diametro continuava a essere 3.14, questo numero inafferrabile, trascendente, il motivo ultimo e misterioso per cui è impossibile costruire un quadrato che abbia la stessa area di un dato cerchio usando solo riga e compasso e per cui gli esseri umani hanno provato per secoli a incastrarlo, a limitarlo, finendo – sfiniti – per dedicare un giorno dell’anno e apposite celebrazioni alla sua ineffabilità.
Ecco, quel giorno è oggi. Il 14 marzo, che nel formato anglosassone si scrive 3.14, è il Pi Day, giornata in cui gli appassionati della matematica festeggiano mangiando torte (“pie” in inglese si pronuncia allo stesso modo di “pi”) e quelli di ciclismo festeggiano godendosi la nuova azione – o dovremmo opportunamente chiamarlo numero – con cui Van der Poel ha trovato la quadratura del cerchio, trasformando l’irrazionale in reale.
Magari è così: quella barretta semiaddentata era un simbolo. O magari no.
Forse la verità che è come al solito stiamo complicandoci inutilmente la vita. «Ho attaccato perché avevo freddo»: ha detto così Mathieu van der Poel all’arrivo di Castelfidardo, ammantando di ragioni bassamente atmosferiche l’azione appena portata a termine, come a voler suggerire che aveva fatto quello che aveva fatto non per chissà quali arzigogoli mentali ma semplicemente perché secondo lui il modo più naturale di contrastare i colpi di coda della brutta stagione è mulinare i pedali di una bicicletta più forte che si può, sottoponendo il proprio corpo a uno strapazzamento simile a quello cui lui ha sottoposto il suo, giungendo al traguardo esausto, sdraiato sull’asfalto, i suoi centottantaquattro centimetri ripiegati su se stessi come una fisarmonica in attesa di distendersi e ricominciare a suonare.
by Leonardo Piccione
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