“Dobbiamo credere a Pogacar?” si chiede Le Parisien. Buone ragioni per non rispondere.
La trama dell’ultimo Tour de France ha visto il ritorno, in grande forma, di un ordito di sospetto. Le perquisizioni della gendarmeria nell’albergo dell’Arkea, i dubbi sulla maglia gialla e la dittatura dei numeri che ormai ci obbliga all’“incangiabilità del futuro”
Quando subiamo una violenza da qualcuno il nostro cervello attiva circuiti neuronali che innalzano la soglia di attenzione e ci fanno stare in guardia ogni qualvolta incontriamo di nuovo questo qualcuno. Un meccanismo di difesa, di sopravvivenza. Almeno per la scienza. Un segno di sfiducia nei confronti della possibilità di cambiamento, soprattutto nella legge, “l’assolutismo dell’incangiabilità del futuro”, scrisse Elio Vittorini.
Di botte in questi ultimi decenni gli amanti del ciclismo ne hanno prese parecchie. Pugni e sberle travestite da valori anomali del sangue, medicinali proibiti, carte bollate, squalifiche, ordini d’arrivo riscritti. Un buco nero, un vuoto ben visibile nell’albo d’oro dal Tour de France: dal 1999 al 2005 c’è un niente che si ripete sette volte nella tabella dove viene iscritto il nome del vincitore. Quel niente ha un nome e cognome: Lance Armstrong, ma è un nome e cognome che in Francia e non solo in Francia quasi nessuno vuole sentire.
Dallo scandalo Festina, Tour de France 1998, alla fine degli anni Zero del Duemila di buchi o nominativi cancellati ce ne sono stati parecchi. Epo, testosterone, ormone della crescita sono entrati nel vocabolario sportivo come fossero sinonimi di scatti, fughe, volate. Hanno imposto soprattutto un cambiamento semantico del concetto di impresa, causando l’inaridimento del vocabolo, escludendone, in buona parte, la stessa esistenza.
Un inaridimento dovuto, in gran parte, a una sorta di colpo di stato che la “scoperta” del doping nel ciclismo ha contribuito a sedimentare, sino a renderla normale. La sostituzione della percezione, del gusto del gesto, con l’attenzione totalitaria del dato numerico. Watt, Vam, VO2 max, sono ormai utilizzati nei discorsi tra appassionati tanto quanto, e forse più, salite, discese, allunghi. Sono addirittura arrivati in sovrimpressione in tv assieme a medie orarie, velocità istantanee. I dati scientifici sono diventati il discrimine tra ciò che può essere fatto e ciò che non può essere fatto. O meglio tra ciò che può essere preso per buono e ciò che invece deve essere preso con le pinze, ciò che è giusto anzi doveroso essere fonte di sospetto. Un sospetto che si è legittimato dalle “violenze ciclistiche” che gli amanti e i commentatori del ciclismo hanno subito in questi ultimi decenni. I dati scientifici “strabilianti” di alcune prestazioni atletiche diventano le prove dell’“assolutismo dell’incangiabilità del futuro” di chi, spesso, accusa i corridori di scarso coraggio nel tentare il colpo grosso e di essere schiavi del controllo dei dati scientifici da parte dei direttori sportivi.
La trama dell’ultimo Tour de France ha visto il ritorno, in grande forma, di un ordito di sospetto. Un clima giustificato a suon di numeri. Tempi di percorrenza tornati “a livelli dell’èra Armstrong”, wattaggi elevati, velocità ascensionali medie d’antan. Per questo e per altro, il passato discutibile di due uomini dello staff della UAE – Team Emirates, Le Parisien ha posto una domanda che non è una domanda, ma assomiglia a un’accusa: “Dobbiamo credere a Tadej Pogacar?”.
Lo sloveno al via della penultima tappa, la cronometro che portava in cima a La Planche des Belles Filles aveva 57 secondi di ritardo da Primoz Roglic e non era il favorito per la vittoria, nonostante Pogacar a cronometro avesse dimostrato più volte di andare forte e si fosse messo alle spalle il connazionale già ai campionati nazionali. Tadej Pogacar sabato scorso ha vinto la tappa, conquistato la maglia gialla e stabilito il record d’ascesa della Planche. Due secondi meglio di Fabio Aru (2017), dieci secondi meglio di Chris Froome (2012) [i dati sono quelli ufficiali Aso]. Una prestazione che Parisien e Monde hanno fatto passare come “indizi” di qualcosa che non va. Altri “indizi” sono state le prestazioni sulle ascese pirenaiche del Peyresourde e del Marie Blanque. I dati sono però complicati e hanno sempre bisogno di essere interpretati, elaborati, studiati. E possono portare a evidenze che tanto evidenze non sono.
Ben più evidente è il passato di Mauro Gianetti e Joxean Matxin Fernandez, team principal e team manager di UAE Team Emirates, e il loro passato: coinvolti in vicende di doping alla Saunier-Duval. Poi rientrati in gruppo.
Il sospetto che sia tutta finzione sta iniziando a lavorare come un tarlo, corrode all’interno, scava tunnel, offusca i confini di ciò che abbiamo visto e inizia a confonderli e a deformare forme e colori. Ci fa chiedere: è tutto un bluff?
Le perquisizioni all’albergo della squadra di Quintana, la notizia del rinvenimento di “prodotti sanitari, compresi farmaci, ma anche e soprattutto un metodo che può essere qualificato come doping”, hanno contribuito al nostro senso di smarrimento: è tutto un bluff?
È tutto un bluff? E chi lo sa se non si sa cosa è stato trovato e quale sia questo metodo che può essere qualificato come doping. Ce lo dirà la magistratura se lo era. Ce lo diranno eventuali controlli antidoping se era tutto un bluff. Lo scopriremo poi, se certezze ci saranno.
Nel 23 settembre 1950 il Congresso americano emanò il McCarran Internal Security Act, la vittoria del senatore Joseph McCarthy, l’evidenza politica di un pericolo comunista che covava la volontà di trasformare l’America in un paradiso socialista. Qualche comunista c’era effettivamente, il pericolo di un ribaltamento del sistema americano un po’ meno. La caccia alle streghe era in ogni caso iniziata.
È tutto un bluff? Ci penseremo poi se dovremo pensarci. Intanto sarebbe meglio dimenticarci di watt-Vam-VO2 max e risalire in sella e accorgersi che su di una bicicletta il mondo assume dimensioni diverse, che ogni tanto ci si può ancora stupire di quello che si riesce a fare. Che esiste soprattutto qualcosa di altro rispetto a tutti quei numeri che hanno invaso qualsiasi cosa. E tra queste il piacere di vedere per vedere, senza sapere se è tutto vero o tutto finto.
by Giovanni Battistuzzi
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