Il ritorno dei talebani e i pericoli a cui stanno andando incontro le donne in Afghanistan. “La bicicletta per loro è uno dei disonori più grandi”. Parla Sima Jalil che riuscì a fuggire dalla furia dei talebani

Gli incubi sono tornati. Tutto sembra essere di nuovo nero, un’oscurità opprimente dalla quale non sembra esserci apparente via d’uscita. E così ritornano i pensieri che sembravano non poter tornare, o almeno non così opprimenti, non così violentemente imminenti. Abbandonare tutto e fuggire. Scappare non per scelta ma per necessità, per salvarsi la vita, per evitare di ritrovarsi perduti. Come se fosse facile decidersi a farlo, anche quando la speranza non è che un lumicino e tutto sembra perduto. “Allora partimmo di notte, perché non avevamo altra scelta, una decina di chilometri a piedi per raggiungere il punto dove avremmo trovato la macchina. Con noi poco e niente, solo l’indispensabile. Lasciammo tutto, andammo verso un futuro che non volevamo scegliere e che non sapevamo come fosse. Abbandonare il nostro paese, la nostra terra, tutto quello che avevamo costruito. Anche questa è una violenza, una violenza ignobile”.

Era il venti settembre del 1996 quando Sima Jalil assieme a suo padre, sua madre e le sue due sorelle fuggirono da Kabul. “Mio padre era comunista, era un ingegnere stimato, aveva molti contatti in Russia e in Europa. Era un uomo che non avrebbe mai voluto lasciare la sua terra. Con i mujaheddin la situazione era grave, ma non disperata, per noi la vita era cambiata certo, ma ancora si sopravviveva. La conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani era però imminente e non potemmo far altro che fuggire. Mio padre era l’unico uomo con cinque donne attorno, sapeva che per noi sarebbe finita malissimo”.

Sima Jalil aveva diciott’anni allora. “Raggiungemmo Dushanbe e lì restammo qualche settimana, poi finimmo a Mosca, da lì giungemmo Lione, da ex compagni di partito di mio padre. L’Urss non esisteva più, il comunismo era finito, ma era come se sopravvivesse ancora. La rete di relazioni continuava a rimanere in piedi. Noi sapevamo tutti il francese, l’avevamo studiato. Eravamo dei privilegiati in un paese dove i privilegiati già allora erano pochissimi”.

Sima Jalil riuscì a ottenere lo status di rifugiato, a studiare, a laurearsi in medicina, ora è pediatra in un paese non molto distante da Lione.

Kabul la rivide anni dopo, nel 2019, quando ritornò in Afghanistan in una missione di Medici senza Frontieri. “È una pagina del mio passato che chissà se potrò risfogliare. Di quello che ho visto io non sopravviva più nulla già allora. Il ritorno dei talebani ha peggiorato ancora la situazione”.

E ha peggiorato soprattutto la condizione delle donne. “Sono loro che hanno già iniziato a pagare il prezzo più alto. Negli ultimi anni a Kabul la mia vita, quella di mia madre e delle mie sorelle, si era sensibilmente ristretta, i pericoli erano aumentati. La nostra fortuna è stata quella di fuggire in tempo dai talebani. La mia infanzia non è stata quella di un’occidentale, non è mai stata quella che ha vissuto mia figlia, ma è stata tutto sommato un’esistenza tranquilla. A otto anni facevo atletica, a dieci mi dedicai al ciclismo in una specie di velodromo. La bici l’abbandonai a quindici perché non era più il caso per una ragazza pedalare. Dall’avvento dei talebani è scomparsa del tutto”.

Le biciclette erano riapparse durante l’occupazione americana, diverse donne si erano rimesse a pedalare. “La bicicletta è un simbolo di cos’è la dittatura talebana: annientamento di tanto, della donna in primis. E sono le donne quelle che rischiano di più ora, soprattutto quelle che si sono dedicate allo sport. Una donna libera è una donna da educare. Una donna a cavalcioni di una bicicletta è una donna da educare con ancor più forza. E l’educazione per loro è violenza e morte. La bicicletta per i talebani è uno dei disonori più grandi”.

Sima Jalil a dieci anni iniziò a pedalare con Suraya Menhaali. Si incontrarono a scuola, per anni condivisero la stessa passione. “Avevamo due biciclette di Kahmoo, un costruttore locale trucidato dai mujaheddin perché cristiano, erano identiche e pure noi ci ritenevamo identiche. Ci somigliavamo, avevamo gli stessi interessi. Io riuscii a fuggire. Lei no. Fu giustiziata dai talebani nei primi mesi del 1997, o almeno questo mi è stato riferito. Non aveva mai smesso di pedalare e si era opposta alla sharia”.

Per Sima c’è il forte rischio, “quasi la certezza, che di Suraya ce ne possano essere tantissime. Le promesse fatte in conferenza stampa dai talebani sono una balla. Chi in questi anni non ha seguito l’integralismo islamico non la passerà liscia. L’integralismo è rimasto in molta gente nonostante gli americani. Le loro lingue parleranno e chi non era uniformato al loro pensiero pagherà un prezzo salatissimo. Soprattutto chi ha praticato sport, soprattutto chi ha avuto l’ardire di scegliere la libertà di una bicicletta”.

by Giovanni Battistuzzi

Ciclista Afghana

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