Era solo Gino Bartali. Solo davanti a tutti, almeno una curva sul secondo, oltre due sul gruppetto che era rimasto sui pedali. Su quel breve tratto in salita aveva dato una di quelle stecche sui pedali che pure il Fausto era rimasto di stucco. E staccato. Gli aveva superati uno dopo l’altro. Certo Coppi gli si era messo a ruota, aveva stretto i denti, ma alla fine “aveva ceduto, quell’acquaiolo”.

Gino aveva preso e lasciato sui pedali pure Gimondi. E sì che sembrava imprendibile. E sì che c’aveva un vantaggio che metà sarebbe bastato a chiunque. Ma il ciclismo è strano, a volte dà, molte volte toglie. E quella volta aveva tolto. Felice si era ritrovato fuori strada a imprecare per aver calcolato male la traiettoria della curva mentre Ginettaccio lo salutava con un brontolio, l’Airone con eleganza, Anquetil con una pernacchia e Gaul con un ombrello che non lasciava spazio a equivoci. Quando Poulidor e Pantani gli arrivarono a ruota, gli misero una mano sulla spalla.

Anche a loro era capitato prima lo stesso destino: un vagare per dune che mai avrebbero voluto esplorare. Eppure erano ancora lì, a poche curve dai primi, pronto a tentare un nuovo arrembaggio, costi quel che costi. C’era ancora una rampa da sfruttare. C’era ancora una strada piena di buche da attraversare. Si doveva solo sperare che questa volta la fortuna sorridesse a loro e la sfiga agli altri. Solo Indurain era fuori gioco. Lontanissimo, alle prese con troppa inesperienza. A tutti gli altri era ancora concesso il lusso del sogno.

La salita mandò in crisi Gimondi e Anquetil, mentre Gaul, da Angelo della Montagna iniziò a vedere i diavoli della discesa. Coppi non guadagnava, Pantani provava la sparata, ma Bartali continuava a controllare.
Tutto sembrava segnato, conquistato o perduto a seconda della posizione, quando dune, crepe e solchi si presentarono a chiedere conto ai campioni. Fu lì, a un passo dallo striscione d’arrivo, che accadde quello che nessuno mai si sarebbe sognato neppure di immaginare.

Raymond Poulidor si guardò attorno, valutò la situazione, la strada che gli stava davanti, il posizionamento degli avversari, raccolse quello che aveva, che altro non era che l’incoscienza della disperazione. Partì. O forse non fece nulla di tutto questo, scattò e basta, fregandosene dell’impossibile. Fu un turbine, un terremoto. Si trasformò in un dardo, in un bulldozer. Uno dopo l’altro riprese e staccò gli avversari che barcollavano incerti sul terreno sconnesso. Superò il traguardo. Primo.

PouPou si alzò di scatto e iniziò a correre di qua e di là mentre la sua biglia smetteva di rotolare giù dalla parabolica della prima curva dopo lo striscione d’arrivo: una alga lunga qualche decina di centimetri attaccata a due stecchi dei ghiaccioli che si erano pappati qualche ora prima. Una scenografia arrangiata alle bene e meglio, ma aveva il fascino di un arrivo del Tour de France. Gli altri ragazzini guardavano l’amico saltare sulla spiaggia in preda a un’euforia esagerata.

“Guarda te quante scene per una vittoria”, fece uno.
“Nemmeno avesse vinto il Mondiale”, rincarò un altro.
Il vincitore sorrideva, se ne fregava dei commenti degli amici. “È l’ultima corsa dell’estate! È più di un Mondiale. Vale come Giro, Tour e Roubaix tutte assieme”.

Gli altri storsero il naso. Aveva ragione solo su una cosa: quella era davvero l’ultima corsa dell’estate. Guardarono i loro genitori iniziare a salutarsi. Poche decine di minuti ancora e le vacanze sarebbero finite.
“E per di più con Poulidor. Nessuno aveva mai vinto con Poulidor”. Nessuno ebbe qualcosa da obiettare. Lo sapevano tutti benissimo che Poulidor ben che andava, finiva secondo.

I ragazzi misero le biglie dentro il secchiello. Sarebbero venute buone per l’anno seguente, sempre che i loro genitori avessero rispettato le parole di quella canzone che diceva “Per quest’anno non cambiare / stessa spiaggia, stesso mare / torna ancora quest’estate / torna ancora quest’estate insieme a me”.

Le biglie, quelle biglie, sono venute buone per anni. Estati di gare immaginarie eppure verissime, talmente reali che sembrava di essere a bordo strada. Tutti quei campioni, quelli che avevano riempito le pagine di quel giornale rosa che occupava le attese delle discese al mare, erano uno in fila all’altro e loro erano sempre nel punto giusto al momento giusto, quello dello scatto.

Le biglie, quelle biglie, erano sempre le stesse. Quelle del ciclismo, quelle dei corridori. Perché a girare per circuiti pieni di trappole, di salite e di discese, di trabocchetti e paraboliche meglio dei ciclisti non c’era niente. Neppure le bandiere delle nazionali. Perché a immaginarsi Anquetil o Gimondi era semplice, Bartali o Coppi ancor di più. Mica così tanto invece era far l’inglese o il francese, o peggio lo spagnolo o il canadese, che chi aveva mai visto Londra, Parigi, Madrid o Ottawa. Anzi Ottawa neppure era presa in considerazione, dato che il Canada iniziava e finiva lì dove iniziava e finiva il circuito di Montréal.

Le biglie, quelle biglie, non cambiavano. Al massimo c’era Bitossi o Merckx, ma ci voleva fortuna. Oppure Chiappucci, che regalava sempre imprese straordinarie, al limite dell’immaginabile, con la sua maglia da Pimpa ben stampata in quel cerchio di cartone chiuso tra le due semisfere.
Rimangono giusto loro, oltre a Indurain, a trattenere nei loro visi invecchiati la magia di quelle sfere in plastica che trasformavano una spiaggia nello Stelvio, nel Tourmalet, nel rettifilo d’arrivo della Milano-Sanremo oppure in un Grammont qualsiasi. Gli altri si sono tutti persi per strada. L’ultimo, poche settimane fa, è stato Raymond Poulidor. Ci ha abbandonato pure lui.

Dentro la semisfera trasparente ormai consunta dai granelli di sabbia – perché l’altra era sempre coloratissima –, il suo volto rimane ancora lì a sorriderci. Forse pensa a tutte quelle vittorie in riva a qualche mare che hanno, a sua insaputa, arricchito il suo palmares a dismisura. Forse lo fa solo perché in fondo non c’è nient’altro di meglio che sorridere, perché in questo modo le sconfitte fanno meno male. Forse ha capito che tutte le bambole che si è preso da Anquetil e Merckx, tutte le volte che era finito alle loro spalle, non era davvero colpa sua. Semplicemente qualche indice aveva sbagliato a misurare la potenza, aveva fatto rotolare la sua biglia troppo lentamente o troppo poco.

by Giovanni Battistuzzi

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *