La sera del 13 settembre 1959 una macchina sfreccia a clacson spiegato per le vie di Milano, diretta ad uno dei tanti ospedali. A bordo, una signora di sessantotto anni, dai grigi capelli corti e dal viso ancora paffutello, sta lottando contro la morte. È una combattente nata, quella donna. Abituata a lottare contro le convenzioni, contro la fatica, persino contro la montagna. Contro tutti. La morte però è un avversario troppo duro persino per lei. Alfonsa Rosa Maria Morini non arriverà mai viva all’ospedale: la sua avventura umana termina così, banalmente, in una normale domenica di fine estate. Il destino, indifferente alle cose umane, ha riservato una morte anonima alla sportiva tanto conosciuta da diventare per il Quartetto Cetra, e per tutta Italia, la Bellezza in bicicletta. Alla donna che aveva osato sfidare autentici miti come Costante Girardengo e Tano Belloni. Ad Alfonsina Strada.
Nascita di una ciclista
Alfonsina nasce a Riolo di Castelfranco Emilia il 16 marzo 1891. Povera gente, la sua: una famiglia di braccianti analfabeti come ce ne sono tante, nell’Italia di fine Ottocento, che certo non asseconda più di tanto quella che deve apparire una stranezza della ragazza: il ciclismo. Nei primi tempi, a lei basta correre in competizioni locali, in sella alla bicicletta che il padre si è procurato chissà come nel 1901, scandalizzando benevolmente gli appassionati emiliani, che presto la soprannominano il Diavolo in gonnella.
A sedici anni, Alfonsina dà la prima, chiarissima dimostrazione del suo carattere indipendente, decidendo di andare da sola a visitare Torino. In Piemonte la giovane inizia a correre sul serio, gareggiando ogni domenica, e superando facilmente l’altra famosa star dell’epoca, Giuseppina Carignano. Sono anni pieni di successi, per Alfonsina, che nel 1909, va a correre al Grand Prix di Pietroburgo, dove riceve una medaglia direttamente dalle mani dello Zar Nicola II; due anni dopo, a Stupinigi, stabilisce il record italiano femminile (ancora ufficioso) dell’ora, con 27,192 km, gareggiando anche in corse maschili. Infine, nella primavera del 1911, un premio di quindici lire la spinge ad uno dei passi fondamentali della sua vita: il trasferimento a Milano.
È l’inizio di una grande avventura. Viene notata da Fabio Orlandini, corrispondente per la Francia della Gazzetta dello Sport, che la raccomanda ad alcuni impresari transalpini. Alfonsina ottiene così un contratto per le gare su pista e negli anni seguenti corre (e spesso vince) nei velodromi parigini. Nel frattempo, la giovane incontra Luigi Strada, un cesellatore ed intagliatore di Azzate. I due si innamorano e, con il pieno appoggio della famiglia di lei, si sposano nel 1915. Le speranze che i Morini, stufi dell’eccentricità della ragazza e desiderosi di vederla vivere una vita normale, ripongono nel matrimonio, vanno però presto deluse. Luigi si rivela un uomo aperto, moderno, di ampie vedute. Per di più, ama profondamente il ciclismo. Il suo regalo di nozze consiste infatti in una bicicletta da corsa, con la quale la sposa compirà tutte le sue future imprese sportive.
Il “Diavolo” diventa “Regina”
Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra e per un paio d’anni molte gare sono sospese, tuttavia Alfonsina continua ad allenarsi e a partecipare a corse minori. La grande occasione arriva nove giorni dopo Caporetto, il 2 novembre 1917. Qualche tempo prima, la giovane si è presentata nella redazione alla Gazzetta per chiedere l’iscrizione al Giro di Lombardia. Poiché risulta tesserata come dilettante di seconda categoria e nessun regolamento lo vieta, Armando Cougnet, che sovrintende alla corsa, vince le proprie perplessità e autorizza la partecipazione.
Alfonsina Morini, ormai diventata per sempre Alfonsina Strada, prende il via con il numero 74, con altri 43 ciclisti, molti dei quali hanno nomi famosi: Philippe Thys, Henri Pélissier, Girardengo e Belloni. Già dopo il tramonto, verso le cinque, assieme a Sigbaldi e Augè, il Diavolo in gonnella arriva al traguardo. Con un’ora e mezzo di distacco e ultima classificata, ma arriva. Venti corridori, quasi la metà, hanno ceduto e si sono ritirati. Ancora meglio va l’anno successivo. Dopo una brutta caduta, con conseguente abbandono, alla Milano-Modena, Alfonsina è di nuovo al Giro di Lombardia, riuscendo addirittura a battere allo sprint il comasco Carlo Colombo. E il soprannome cambia: diventa la Regina della pedivella.
È un altro Colombo, Emilio, che la ammette al Giro d’Italia del 1924. Giornalista di razza, il direttore della Gazzetta intuisce che, in una corsa che per motivi economici si presenta priva di Girardengo, di Giovanni Brunero e degli altri grandi, Alfonsina può rappresentare una inconsueta attrazione. Non si sbaglia. La notizia della presenza di una donna, tenuta un po’ in sordina dai mezzi di informazione sino a poco prima dell’avvio per timore di commenti negativi, si sparge presto tra i tifosi, amplificandosi giorno dopo giorno.
3.613 km da leggenda
Il Giro di quell’anno è una terribile kermesse di 3.613 km, divisi in dodici micidiali tappe intervallate da undici giorni di sosta. Strade per lunghi tratti non asfaltate, da percorrere in sella a biciclette pesanti oltre venti chili e prive di cambio: Alfonsina deve fare tutto da sola, priva com’è di mezzi di appoggio al seguito. Le prime quattro tappe sono portate a termine regolarmente, pur con pesanti distacchi: oltre un’ora a Genova, 45 minuti a Roma. E tuttavia la ragazza taglia sempre il traguardo. Spesso prima di tanti altri.
Nella frazione tra L’Aquila e Perugia pioggia e vento flagellano implacabilmente i corridori, costretti ad avanzare in un pantano di sterrati allagati e pieni di buche. La Regina cade, si rialza, buca, si ferma per riparare la ruota, cade ancora. È un vero calvario, che Alfonsina porta a compimento fuori tempo massimo. Alcuni giudici vorrebbero graziarla, ma l’opinione dei più fiscali – e probabilmente più retrivi – finisce per prevalere. Viene esclusa dalla corsa. Per fortuna Emilio Colombo, che ormai ha preso a cuore le sue sorti, decide di farla comunque proseguire, anche se fuori classifica, pagandole alloggio e massaggiatore di tasca propria.
L’attraversamento della nativa Emilia avviene tra ali di folla osannante, e a Fiume gli applausi e gli abbracci degli spettatori sono tutti per lei, per quella ragazza in maglietta e pantaloncini neri che, pur giungendo con quasi mezz’ora di ritardo, è la vera vincitrice della corsa. Alfonsina arriva sino a Milano: su novanta partenti, sessanta, i due terzi, si sono arresi. È un trionfo. La casa di tubolari per la quale la Regina gareggia le attribuisce un premio di 200 lire, ma la soddisfazione maggiore è quella di avere dimostrato, a sé stessa e al mondo, di poter pedalare alla pari con gli uomini, ed anzi di poterne battere molti, anche in una competizione massacrante come il Giro d’Italia.
Una vita per le due ruote
Purtroppo, Alfonsina non lo correrà più, il Giro, anche se le capiterà di accompagnarlo, in maniera ufficiosa, per molte tappe. Le sfide aperte alla superiorità maschile sono molto poco apprezzate dal regime. Non che la carriera della Regina della pedivella finisca qui. La Strada vince la bellezza di trentasei gare con colleghi maschi, conquista la stima e l’amicizia di Gino Bartali, di Fausto Coppi, di Fiorenzo Magni e di Girardengo. Nel 1937 batte la campionessa francese Robin, e l’anno dopo, a Parigi Longchamp, conquista il record mondiale femminile dell’ora percorrendo 35,280 km.
Rimasta vedova, il 9 dicembre 1950 si risposa con l’amico Carlo Messori, con cui apre un negozio di biciclette con un’annessa officina di riparazione, in via Varesina a Milano. Nel 1956, a sessantacinque anni, corre e vince la sua ultima gara, un circuito per veterani a Nova Milanese.
L’anno dopo è di nuovo vedova, e decide di appendere per sempre la bicicletta al chiodo. Vende parte dei trofei conquistati e compra una splendida Guzzi 500 rossa, con la quale continua a seguire le corse. Il 13 settembre 1959 assiste alla partenza della Tre Valli Varesine. Rientra la sera e si ferma qualche attimo a chiacchierare con la portinaia. Torna poi verso la moto, con l’intenzione di portarla al negozio e rincasare in bicicletta, ma la Guzzi proprio non vuole saperne di ripartire. La portinaia la sente premere più volte, con forza, sul pedale d’avviamento e, incuriosita, esce dalla guardiola: giusto in tempo per vederla abbandonare la moto e cadere riversa sul manubrio, come per stringerlo in un ultimo abbraccio.
La corsa verso l’ospedale è inutile. Il cuore di Alfonsina si è fermato per sempre. Le sopravvive una leggenda di sportiva tenace, coraggiosa e in anticipo sui tempi. Arriva sino al nuovo millennio, l’eco di questa vita straordinaria. Nel 2010 i Têtes de Bois le dedicano Alfonsina e la bici, splendida canzone accompagnata da un altrettanto splendido video, interpretato nientemeno che da Margherita Hack.
Una donna meravigliosa per ricordare un’altra donna meravigliosa.
by Danilo Francescano
from http://urly.it/3cvam