Il francese è stato il primo a scattare sul Montée Saint-Nizier-du-Moucherotte. Il tedesco ha invece scelto il tempo giusto per salutare Carapaz e Reichembach e ha filmente legittimato i chilometri in testa al gruppo della BORA – hansgrohe.
Quentin Pacher è uno e doppio. Esisteva un Quentin Pacher senza barba che ha lasciato il posto a un Quentin Pacher con la barba. Pochi centimetri di pelo non rasato che hanno trasformato il corridore francese, quasi fosse un’evoluzione, una metamorfosi. Per qualcuno cambiare a ventott’anni è sintomo di maturazione, per altri lo è di consapevolezza. Lui la chiama semplicemente soglia. Quella che ogni uomo deve superare prima per iniziare a schiaffeggiare le proprie insicurezze. Il Quentin Pacher senza barba quella soglia non l’aveva superata: “Avevo paura di sbagliare, ero insicuro. Ogni tanto attaccavo giusto per far vedere che l’avevo fatto, quasi mai perché ci credevo davvero”. Il Quentin Pacher con la barba della paura di sbagliare invece se ne frega: “Tanto nel ciclismo, quando si centra la fuga, va quasi mai a finire bene. Però non si può mai sapere”. In questo Tour de France il francese si è fatto 295 chilometri da avanguardista (solo in quattro sono stati naso al vento di più: Neillson Powless con 361 chilometri; Benoît Cosnefory, 316; Remi Cavagna, 308; Nils Politt, 305). C’ha provato pure oggi, ma anche oggi gli è andata male.
Pacher era stato il primo a scattare al via della 16esima tappa del Tour de France, la La Tour-du-Pin – Villard-de-Lans, 164 chilometri, e il primo a farlo sull’ultima salita, il Montée Saint-Nizier-du-Moucherotte. Ma nel ciclismo conta il tempismo e con questo Pacher non è mai andato molto d’accordo. Perché il tempo non è altro che una questione di adattamento e non tutti gli si adattano allo stesso modo. “Ci sono corridori che salgono alti scalini e uno dietro l’altro. Non è il caso mio. I miei erano più bassi e più piccoli. C’ho messo più tempo, ma non mi sono mai sentito di ristagnare. In fondo ognuno ha traiettorie diverse, forse sono legate al caso, forse alla propria personalità, sicuramente alle priorità che uno si dà”, aveva detto all’Ouest France. E la priorità che Quentin Pacher si era dato era quella di avere alternative ché mica “saremo corridori per sempre. O almeno corridori professionisti, che la bici uno è difficile che la lasci”.
Pacher in bici ci è cresciuto, con la bici ha attraversato scuole e università (corso accademico-professionale in Marketing), dilettantismo e professionismo. In Francia si batteva con Latour e Vuillermoz, con Barguil e Martin. Qualche volta li teneva dietro. Anche oggi se li è tenuti tutti dietro (a eccezione di Barguil – Latour si è ritirato). E di un quarto d’ora. Il problema è che qualcuno gli è finito davanti. In cima a Villard-de-Lans c’è arrivato a due minuti e cinquant’uno da Lennard Kämna, che finalmente ha legittimato i chilometri in testa al gruppo della BORA – hansgrohe, tra fughe e tirate di collo in favore di Peter Sagan.
Nono, dopo aver provato a far saltare il banco, a lasciarsi dietro gente come Richard Carapaz, Sébastien Reichenbach, Julian Alaphilippe. Non ce l’ha fatta, è stato ripreso. “Poco male, ci riproverò”. Perché dietro quella barba è sorto un uomo che non ha paura del futuro, perché sa che tanto lo pedalerà.
Come ha fatto a inizio luglio, per lasciarsi alle spalle il lockdown e qualche cattivo pensiero di troppo. “In quattro tappe ho unito in bicicletta il Mediterraneo con l’Oceano Atlantico seguendo la strada che il Tour ha percorso nel 1910 per il suo primo attraversamento dei Pirenei. Era qualcosa che avevo in mente per un po’, ma non volevo farlo così a caso, volevo che avesse un senso, qualcosa di formativo, che non fosse solo del turismo montano”. Lasciarsi alle spalle una pandemia era un buono motivo.
by Giovanni Battistuzzi
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