La Deceuninck–Quick step e quel branco di corridori affamato di pietre.

Potrebbe anche essere soltanto un questione di qualità, o una formalità, chi ricorda più bene. Oppure è una questione di mentalità e forse questa è più adatta al soggetto, o meglio ai soggetti, in questo caso un branco. Perché la Deceuninck – Quick step branco lo è, ovunque, soprattutto lassù al nord, in quel luogo dove le strade sono strette e la meraviglia la si trova lontano da tutto, fuori dai borghi abitati, dispersa tra campi e boschi. Un branco di corridori divenuti branco di lupi: Wolf pack. L’hanno scritto pure sulla maglietta, tra le spalle sotto il colletto nel retro della divisa: così è più facile per gli avversari capire con chi hanno a che fare, ché tanto loro sono avanti e tutti dietro a rincorrere.

Una questione di mentalità, quella che Patrick Lefevere, team manager della formazione belga, sintetizzò in un semplice “l’importante che sia uno dei nostri, chi non conta”. Lo disse nel 2008 al termine del Giro delle Fiandre nel quale la Quick Step doveva correre per Tom Boonen e che invece vide trionfare il “gregario” Stijn Devolder. Boonen sbuffò per la vittoria del compagno, venne richiamato all’ordine e iniziò a capire che quello che Lefevere diceva non era poi così sbagliato. “L’importante che sia uno dei nostri” divenne mantra. E così da corridori gli uomini in blu si trasformarono in lupi. Un branco affamato alla sola vista di quei blocchi di porfido chiamati pavé. E forse non poteva essere altrimenti per una squadra belga diretta da un belga che sulle pietre sapeva andare forte, svezzato nel ciclismo da un particolare tipo di belga, Julien Van Lint, che la vigilia di ogni gara nelle Fiandre cenava seduto su quattro blocchi di pavé per sentirsi tutt’uno con quel tipo di superficie.

Mancava il nome per etichettare il tutto. Arrivò nel 2012. Wolf pack fu uno scherzo che divenne una cosa seria. “Ho iniziato ad usarlo in alcune e-mail” raccontò a Velo News il direttore sportivo Brian Holm. Lui danese di nascita, belga per vocazione, guardò i suoi uomini e gli venne in mente “la banda de quartiere dove sono cresciuto a Copenhagen. Erano soggetti pericolosi, si chiamavano Wolf pack. Ai corridori il nome piacque a tal punto che iniziarono a utilizzarlo. Prima tra loro poi anche pubblicamente. Bob Jungels ha iniziato nel 2017 durante il Giro d’Italia. Poi Alessandro Tegner (il direttore marketing della Quick-Step) ha stampato alcuni cappelli e tutto è decollato”.

Ed è decollato così bene, che è diventato una sorta di identità collettiva capace di formare e modificare carattere e spirito a tutta la squadra. Un branco di lupi famelici di vittorie che ha una sola regola: “L’importante che sia uno dei nostri”.

Identità corsara, identità vincente. Una moderna versione del Unus pro omnibus, omnes pro uno che fu locuzione latina, prima di diventare motto della Svizzera e massima, spada in mano, dei tre moschettieri di Alexandre Dumas.

“Non ridi quando arriva un branco di lupi. È un buon nome anche per questo”, sottolineava Holm. E a non ridere sono soprattutto gli avversari, anche perché questo branco di lupi è un concentrato di gente tosta, gambe potenti ed equilibrismo a pedali. E così viene più semplice far diventare un mantra “l’importante che sia uno dei nostri”. Perché un motto funziona meglio quando quel “uno dei nostri” fa parte della ristretta cerchia degli artisti del pavé. Perché un motto funziona meglio quando si può scegliere se lanciare alla ribalta Zdenek Stybar o Bob Jungels, Philippe Gilbert o Yves Lampaert.

by Giovanni Battistuzzi

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